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Una "guest star" internazionale si cimenta con l’annuale albo gigante di Dylan Dog scrivendo una storia lunga ben 236 pagine. Ecco a voi Robin Wood, detto la "Leyenda", che porta la sua sfida a una leggenda del fumetto italiano: Dylan Dog.
La sfida della Leyenda |
Consiglio, a chi non conosca l’autore, di far precedere a quella di questa recensione, la lettura della bella scheda di Robin Wood realizzata da Marco Pesce. Posto dinanzi a una nutrita serie di sfide, Robin Wood non ne vince nessuna in modo trionfale ma le vince tutte: riuscire a gestire un character difficile quale Groucho (forse la più dura); scrivere di un personaggio non suo - per il quale si trova a scrivere, per soprammercato, la più lunga storia di sempre -; scrivere una storia di lunghezza inusitata per lui; cercare di non rendere il personaggio troppo woodiano, e senza che questo portasse ad annullare la propria personalità a favore di una piatta aderenza agli stereotipi dylandoghiani.
Il punto è, dunque, se Wood sia riuscito a far suo il personaggio senza tradirne l’identità. Era Dylan Dog, questo? Sì, lo era: seppure un Dylan Dog visto con l'occhio di Wood e fortemente in bilico per diventare qualcosa d'altro. Per questa speciale occasione, l’autore ha imbastito un soggetto portante non originalissimo (persino banale, se vogliamo: un’invasione di un’entità malvagia proveniente da un’altra dimensione), ma arricchito degli spunti più disparati (storie d’amore, di disperazione, sequenze parodistiche ed autoparodistiche, pseudofiabe) ed ha riunito il tutto a formare una sorta di mega-favola che pesca a piene mani nell'immaginario della cultura popolare. Egli è ben riuscito a far convivere tra loro tutti questi spunti, queste diverse sottotrame che intessono le pagine dell’albo, intersecandosi senza mai scontrarsi, riuscendo a diventare un tutt’uno armonico, assemblato con attenzione dall’ironia leggera che Wood utilizza per collante e cifra distintiva di questa storia e della propria interpretazione dell’indagatore dell’incubo.
Come si vede non si tratta quasi mai di elementi portanti della storia; il che permette, però, all’autore di inserire la propria personalità nella narrazione senza snaturare un personaggio di consolidata tradizione: Wood riesce a non forzare troppo la mano, e pur correndo per tutto l'albo sul filo, la vicenda mantiene la giusta dimensione dylandoghiana. Ma è proprio tutto questo che permette all’autore di inserire nell’ordito della narrazione quella fondamentale iniezione di ironia e soprattutto di autoironia. Molti i dialoghi e le scene in cui Wood - come sa fare - si mette a parodiare bonariamente la sua prosa abitualmente magniloquente. Operazione che di certo può essere apprezzata al suo meglio da chi conosca sia il Wood più classico - da Nippur a Savarese, da Dago a Mojado a Qui la Legione - sia il leggero e brillante commediografo della autobiografica Lei&Io (si consulti nuovamente la scheda dell’autore) . Un gran minestrone, dunque? Sì, forse, ma gli ingredienti sono ben dosati e riempiono convenientemente le 236 tavole dell'albo.
La storia patisce una partenza forse un po' lenta (probabilmente si sconta una iniziale necessità di adattamento al personaggio), ma poi fila via che é una bellezza, e si lascia leggere piacevolmente e senza rallentamenti né pesantezze di sorta. Fondamentale, in questo, la rinuncia dell’autore all’uso delle didascalie, tanto spesso strumento privilegiato per il respiro epico delle sue opere. La sceneggiatura è quindi agile e fresca, con l’autore che ha evitato le "secche" dell’uso sovrabbondante di retorica che tanto gli è congeniale. Retorica che viene sapientemente "dribblata" anche nel finale. Un finale, infatti, che se da un lato propone un buonistico premio consolatorio per Patricia, Mary e Michael - i tre "posseduti" - d’altro canto vede Dylan uscire sconfitto dal suo rapporto con Vanessa, la sorella di Patricia, e vede la donna uscirne non meno male di Dylan. Come altre volte abbiamo visto succedere, quando le storie amorose di Dylan escono dalla mera routine di leit-motiv per scontrarsi con la realtà di una vera e possibile relazione interpersonale (penso all’amore "impossibile" e drammatico per la Bree Daniels del DD19/20 "Memorie dall’invisibile" o al prosaico rapporto con Eleanor Rigg, per il quale si veda la recensione del n.154 "Il battito del tempo"), il personaggio è destinato fatalmente a pagare lo scotto della sua caratterizzazione di eterno fanciullo, di eterno amante di ogni donna: inevitabile nel momento in cui si trovi a dover agire come un adulto.
E’ probabile (e anche naturale) che il lettore dylandoghiano affezionato alla tradizione che ha reso questo personaggio così amato, possa trovarsi spiazzato da tutto questo e dalla scrittura woodiana (che qui, ripeto, fa uso di TUTTI i suoi registri), ma tengo a sottolineare nuovamente un aspetto di questa storia: non dimentichiamo che questo è un albo doppiamente "speciale", perché fuori serie, e perché scritto da un autore "ospite". La sua eventuale non piena aderenza alla "ortodossia" del personaggio dovrebbe essere un tratto apprezzato proprio per questo motivo, e rappresenta il valore aggiunto dell’albo. Come anticipavo, la gestione della figura di Groucho era probabilmente la sfida più ardua che Wood si sia trovato a dover affrontare. Anche qui ritengo abbia attuato la strategia migliore che potesse applicare. La comicità del personaggio e' una comicità verbale ovviamente, il che significa che per gestirlo al meglio si deve possedere una grande padronanza della lingua italiana. Sicuramente Wood sarebbe in grado di scrivere un Groucho tradizionale, ma... in spagnolo :-). Wood comprende l'italiano ma non va oltre. Questo gli lasciava aperte tre strade: assegnare un certo spazio al personaggio e far scrivere le battute a qualcun altro; assegnare un certo spazio al personaggio e farlo muovere e parlare come veniva "naturale"; eliminare sostanzialmente la figura di Groucho dalla storia. Wood ha scelto la seconda strada, indubbiamente la più difficile da percorrere e la più coraggiosa, perché ovviamente questo ha significato snaturare forzatamente il personaggio e offrirne una visione totalmente personale e nettamente diversa da quella di Tiziano Sclavi e degli altri autori "dylaniati".
Detto di questo Groucho inconsueto e del Dylan malinconico, vediamo come l’autore abbia poi messo in campo almeno altre due figure di rilievo: Vanessa e Alhambra. Vanessa non è la classica "sciroccata" che (davvero) troppo spesso popola le pagine della serie, erede - con eccessiva frequenza, banale - di quel formidabile prototipo che fu la Anna Never del quarto albo "Il fantasma di Anna Never". Vanessa è una donna vera, reale: potremmo incontrarla in un qualsiasi giorno della nostra vita. E’ una donna insicura, un po’ meschina e calcolatrice (non rinuncia forse al suo amore per Dylan perché questo va contro la strada che ella stessa ha tracciato per sé verso un matrimonio rispettabile, solido, benestante?). Eppure è proprio questo a renderci compassionevoli, a farci empatizzare con lei, perché, in fondo: chi di noi non ha paura del futuro? Alhambra è invece un personaggio da commedia. Anzi: da tragicommedia. Wood la usa per ironizzare su certi schemi della letteratura horror (e di tutta la letteratura cosiddetta "popolare"): ma quante volte minaccia Dylan di morte senza mai fargli veramente male!? E le fornisce anche il più classico degli assistenti "neri", Gorhan: ex bello e malvagio, vittima dell’inevitabile maledizione. Con tutta questa caratterizzazione stereotipata, l’autore non rinuncia tuttavia ad aprire uno spiraglio su una dimensione più umana del personaggio; ed ecco che possiamo provare ad immaginare l’abisso di solitudine e disperazione che Alhambra è costretta a vivere nel suo mondo. In definitiva, la missione di Robin Wood è riuscita!
Da troppo tempo Giovanni Freghieri andava inanellando una serie di prove opache e affrettate (valga per tutte quella fornita in DD153 "La strada verso il nulla"); siamo perciò felici di poterlo rivedere in buona forma. Il suo lavoro non è ai livelli cui seppe giungere diversi anni fa, rendendo in modo ammirevole tutto il fascino grottesco dell’ambientazione fantasy di Martin Mystère n.76/77, "Il Piccolo Popolo", tuttavia il suo disegno evocativo e fascinatorio è riuscito a cogliere in pieno tanto quel sentimento malinconico che fa da fil rouge alla narrazione, tanto i molteplici aspetti di cui Wood l’ha voluto rivestire.
Ottimo il lavoro che Freghieri compie sui personaggi. Il Dylan che ritrae in questo albo è davvero malinconico, così come il suo Groucho è davvero un gentiluomo garbato e ricco di humour e ironia, Bloch determinato, Vanessa tormentata e fragile, Alhambra malevola, sensuale e pericolosa, Gorhan deforme, di una deformità fisica che si fa morale. L’artista svolge il suo compito nel modo più corretto: narrando la storia senza indulgere in particolari "belli" e magari fuorvianti, che distraggono l’attenzione del lettore. Tavole e vignette sono concepite per trasmettere al lettore le emozioni e le sensazioni della storia, e tuttavia Freghieri riesce anche ad inserire qui e là, e in modo armonico e funzionale, alcuni saggi di virtuosismo grafico: quei volti femminili così intensi e misteriosi, quegli occhi che immaginiamo verdi, di un verde straordinariamente profondo, e lontani da affanni e preoccupazioni quotidiani, perduti in riflessioni ultraterrene. Nell’economia di una buonissima prova, affiora anche qualche neo: ci sono volti (dei personaggi principali e non) affrettati e tirati un po’ via, talvolta quasi solo abbozzati (Lucas a pag.34, la sua guardia del corpo calva, Dylan a pag.48, Vanessa a pag.91, i tre "posseduti" a pag.143, Alhambra a pag.209), ma sono peccati veniali. Di una cosa siamo certi riguardo a questo albo gigante: che sia piaciuto (come è stato per noi) o meno, non si può negare che sia un albo veramente speciale. La lunghezza della storia (che d’ora in avanti dovrebbe essere la regola per i giganti) e la presenza di un ospite straniero della fama di Robin Wood ai testi hanno fatto de "L’esercito del male" un evento inconsueto per la storia di Dylan Dog.
Peccato, però, che questo albo speciale - finalmente speciale davvero - sia stato un po' trascurato dalla SBE a livello redazionale. Perché non sfruttare, infatti, l'occasione e presentare adeguatamente ai lettori l'autore ospitato, così come avviene con Tex per gli artisti che realizzano i texoni? Forse che i lettori dell'indagatore dell'incubo non hanno gli stessi diritti di quelli dell'inossidabile ranger del Texas? :-)
Che altro? Una bellissima copertina di Stano, al quale la dimensione del gigante giova per profondità e cromatismo.
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