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Chi ha detto che a Londra l'unico negozio che appare e scompare è quello di Hamlin, Safarà?
Che brutto questo libro, quasi quasi lo rileggo.
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La narrativa di ogni tempo è costellata da una vasta bibliografia di testi cosiddetti "dannati" o "maledetti"; in alcuni casi, anzi, essa poggia le sue fondamenta proprio sulla loro esistenza, vera o presunta che sia. Siffatta bibliografia non manca di fare la sua presenza anche nel microcosmo dell'Indagatore dell'Incubo, e questo numero provvede ad arricchirne le fila una volta ancora.
E una volta ancora Faraci si diverte a rimestare nel paiolo delle idee, traendone uno spunto poco più che carino, ma provvedendo ad impreziosirlo quel tanto che basta con le spezie del suo orticello, prima di servirlo fumante al desco del lettore, accompagnandolo stavolta con un vinello dal tono leggermente più "sanguigno" rispetto a quelli scelti in passato per altre pietanze.
Un discorso diverso va fatto per la metà oscura del mancato scrittore horror Roland Jerks, ed in generale per la sceneggiatura. Continuando la metafora culinaria, Faraci si dimostra come al solito capace di insaporire ad arte le semplici fragranze con le quali si diletta ai fornelli. E' un buon Groucho il suo, che ravviva i toni un po' spenti di Dylan con una mezza depressione che strappa più di un sorriso (e che comunque si mantiene lontana dai campanilismi sclaviani della storia breve "Serial killer", nel quinto Gigante); diverte, come si diceva, il folle uccisore dei malcapitati lettori delle fantasie distorte di Jerks, con quel suo linguaggio preso talmente di peso dalla categoria degli "Horror Z-movies", da apparire quasi come una colta e raffinata citazione.
Accade però a volte che il cuoco non abbia il tempo (o la voglia) di assaggiare ciò che propina agli avventori in sala, e magari si sbaglia nel dosare uno degli ingredienti principali, come il sale.
Un paio di espressioni ingrugnite sono ben lungi dal rendere l'idea di un coinvolgimento emotivo che è, necessariamente, straziante - un trasporto espresso invece in maniera poco meno che superba da Paola Barbato nel n.175. Classico finale aperto: forse questa stessa minestra la servono anche altrove...
Una premessa indispensabile: un così basso voto non è da attribuire ai disegni in sé. La costruzione delle tavole si presenta bene, la scelta delle inquadrature è nel complesso corretta, pur senza indulgere in sperimentazioni prospettiche o similia.
Vignette come quella che apre la pag.50, o le ultime di pag.53 e 89, così pulite e precise, si rivelano purtroppo poco efficaci ed evocative per questa storia, fallendo così nel loro principale intento che è quello di supportare il testo, al fine di offrire un prodotto che tenga desta l'attenzione del lettore. Lo ripetiamo, quindi: non si tratta di una critica al disegnatore, quanto una nota di rammarico per averlo visto cimentarsi in una storia che non era proprio nelle sue corde. ![]() ![]() ![]()
A conti fatti, in sede di giudizio la soluzione migliore appare quella di equilibrare le spinte in positivo ed in negativo, in favore di una più onesta neutralità aritmetica. La copertina di Stano, oltre a riprendere una vignetta di pag.9, non aggiunge né toglie nulla al prodotto finale; forse all'espressione di Dylan e della ragazza avrebbe giovato un piglio più drammatico.
Vedere anche la scheda della storia
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