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servetta, svelta e graziosa: si chiama fantasia. Deve essere lei che
consente all'autore di offrirci testi appassionanti con regolarità
stupefacente. E questo copione conferma la regola: alla felicissima
caratterizzazione dei personaggi, veri anche nelle figure di contorno,
corrisponde una trama avvincente, che lega lo spettatore alla sua poltrona
e lo incanta con continui coup de thêatre.
"il commediante può recitare tutte le personalità in quanto privo
di una sua personalità " |
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Il sipario si apre su una scena di teatro nel teatro, che serve ad
introdurre il protagonista di questo dramma: l'attore sfigurato diventa un
uomo senza volto, un fantasma del palcoscenico, incarnazione del
paradosso dell'attore diderotiano, secondo il quale il commediante può
recitare tutte le personalità in quanto privo di una sua
personalità. Si prosegue con un dialogo dei cattivi della storia,
dove, un po' Iago e un po' Shylock, viene presentato
Ferdinand Blast, viscida creatura che coltiva una spietata
perversione: uccide i bambini, e in particolare i bambini poveri, allo
scopo delirante di eliminare la miseria. Qui l'arte di Manfredi si fa
teatro della crudeltà, e, ben lontano da qualsiasi straniamento
brechtiano, mira a colpire allo stomaco lo spettatore, a cui non resta che
rilevare come esista chi è più cattivo di Hogan: Hogan un
motivo ce l'ha, il denaro, il potere, l'egemonia; Blast no, è il male
pervertito, il male che trae piacere da se stesso. Ed è solo l'inizio.
Il personaggio dell'attore senza volto rientra in scena introducendo il
tema del doppio, così caro al teatro contemporaneo, eppure qui
trattato con peculiare originalità narrativa. Su questo doppio Hogan
commette il suo peccato di superbia, sognando l'ubiquità che un sosia
manipolato gli può offrire. E, come MacBeth, paga la sua
ambizione, perché l'uomo senza volto non è un uomo senza
coscienza, il paradosso si scontra con la realtà: nessuno che sappia
sorridere può interpretare Hogan fino in fondo. Ma non basta che la
coscienza si riscuota, la tragedia pretende la sua catarsi, le
Erinni hanno fame, e Poe, rivolgendosi alla Nemesi incarnata,
Magico Vento, urla sulla scena: "Aspettami, voglio ammazzarli
anch'io!". Non dalla giustizia degli uomini, però, potrà venire
la purificazione: il giudice Kellogg impugna una bilancia truccata,
il piatto pende sempre dove vuole lui; piuttosto la Tuche, cieca e
cogente volontà degli dei, organizzerà la macchina infernale in
cui cadranno Blast e Magico Vento.
"Poe, rivolgendosi alla Nemesi incarnata, Magico Vento, urla sulla scena:
"Aspettami, voglio ammazzarli anch'io!"" |
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All'eroe dal multiforme ingegno, però, gli dei concedono il loro
aiuto: le manette sono aperte, il cavallo è introdotto nella
città di Ilio. Ma nell'attesa di poter agire, è all'uomo di legge
che si affida la ricerca della verità, eterno problema dell'uomo: a
chi credere, al ricco banchiere o al mezzo indiano? Come stanno le cose?
Così, se vi pare. E mentre il coprotagonista spazientisce in cella, e
mentre i comprimari si arrabattano sulla scena, il protagonista si vende il
regno per un cavallo, e prepara il suo gran finale: all'ombra di un
capestro approntato su di un palco (ulteriore gioco di specchi, ulteriore
metafora del teatro come luogo dell'esistenza umana in cui si confondono
illusione e realtà, giustizia e sopruso, vita e morte), tutti i
personaggi si ritrovano per la scena madre: l'agnizione; afferrata a fatica
la verità emerge, i cattivi sono costretti alla fuga, l'eroe insegue.
Gli dei guidano la mano dell'uomo, Blast cade sotto l'ascia di Freccia
Spezzata, Magico Vento insegue l'emissario del male, Herbert,
cui pero' il destino ha riservato la fine dei deboli. La signora con la
falce dice la sua, tutto il resto è silenzio. Eppure non è tutto,
il protagonista ha ancora qualcosa da dire: l'uomo senza volto trova la sua
ultima identità nell'emissario del male, incarna Herbert, e il
pubblico già sa che questo lo dannerà. Ma su questa intuizione,
l'autore, astutamente, fa calare il sipario.
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Dick Carr nel suggestivo b/n di Frisenda
(c) 1999 SBE
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La regia di questa edizione è sempre di Manfredi, che gestisce la
messa in scena con abilità e passione: la visione d'insieme non viene
mai meno, colpisce la cura per i particolari, lo sguardo è globale.
Oltre alla recitazione degli attori, misuratissima ed estremamente
espressiva, la regia cura molto l'aspetto della coralità, vero tallone
d'Achille del teatro contemporaneo, eppure qui risolta con insolita
sicurezza: neanche la figura dell'eroe emerge dal coro, in fin dei conti
egli stesso ne fa parte, la regia non ci presenta il testo come vuota
riproposizione dell'archetipo o dello stereotipo dell'eroe, ma ci offre un
quadro così ricco di particolari da incantare: è la grande magia
del teatro, di una visione che coinvolge lo spettatore, fino a fargli
confondere, tipicamente, illusione e realtà, fino all'evasione.
  

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Pasquale Frisenda
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In questo efficace lavoro di realizzazione, assolutamente centrale risulta
l'impianto iconografico di Pasquale Frisenda: le scene, i costumi, le luci
soprattutto, suggestivamente divise tra oscurità e chiarore, capaci di
restituire una scena quasi in bianco e nero, splendidamente funzionale alla
storia, fortemente evocativa.
Il palco resta decifrabile anche nelle
frequenti zone d'ombra, il colore dominante è il nero, ma non si perde
di chiarezza, e tra nebbia e abbacinante biancore, tra l'oscura notte della
coscienza e dell'anima e il nitido lucore della stella dell'eroe, lo
spettatore vive un'esperienza memorabile.

Cielo e terra, buoni e cattivi, bianco e nero - (c)
1999 SBE
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Le locandine di Andrea Venturi continuano a piacerci molto, anche quando
non sono particolarmente denotative, perché apprezziamo la scelta dei
punti di vista, il taglio delle inquadrature. Anche in questa, il punto di
vista, inusuale, si trova in alto a destra, l'eroe in primo piano è
decentrato, ma l'immagine ha una notevole profondità e ci rimanda,
obliquo, distorto, come in una ripresa dell'Othello di
Welles, il mostruoso personaggio di sfondo. I punti di luce sono
due, segno del dualismo di ciò che si racconta, l'immagine è ben
impostata sulle classiche linee delle diagonali, con buoni rapporti tra
pieni e vuoti.
Un altro particolare che accresce il valore globale della
rappresentazione è che, come le altre recenti opere di Manfredi, anche
questa si chiude con un finale quasi aperto, che causa nello spettatore
l'insorgere di domande sui possibili sviluppi della situazione. Quasi dei
cliffhanger, senza essere tali.
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