Uno dei miti più suggestivi del cinema western è quello del cavaliere solitario che, giunto da chissà dove in un paesino senza legge, con alle spalle un passato insondabile (o comunque mai del tutto chiarito), riporta giustizia a colpi di pistola per poi riallontanarsi, malinconico, verso l'orizzonte. Una chiusura del genere si era già vista, in questa serie, in "Chemako" KP 5. Là, però, Ken si separava da Belle e da Theba con uno scopo ben preciso: rintracciare Welsh. Ha invece un sapore del tutto diverso il finale di "Uomini, bestie ed eroi" KP 15, in cui Ken si separa da Pat O'Shane e dai suoi compagni di viaggio non appena si rende conto di essere giunto in prossimità del ranch della ragazza. Sono passati tre anni - nella biografia del personaggio - dall'analogo finale di "Chemako". Tre anni in cui Ken è passato senza soluzione di continuità da un'avventura all'altra: ha ucciso Welsh dopo una caccia all'uomo che l'aveva condotto sino in Messico, è sopravvissuto al naufragio di una baleniera e al gelo delle terre artiche, è scampato al rischio di essere impiccato per un errore giudiziario, ha aiutato Pat a crescere e a diventare indipendente... Missione compiuta, si potrebbe dire: l'eroe ha svolto il ruolo che gli è proprio e non ha più ragioni per restare. Qual è adesso la sua meta? Non lo sappiamo.
Sappiamo, però, perché non resta. Diversamente dal tipico cavaliere solitario incarnato, di volta in volta, da Alan Ladd, Yul Brinner, Clint Eastwood, Ken vagabonda non perché "spostato", perché ha (o ha avuto) conti in sospeso con la legge, perché incapace di mettere radici (le aveva messe a Fort Smith; le metterà, anche se per un breve periodo di tempo, a Boston per vivere accanto a suo figlio)... Come diverrà sempre più chiaro col proseguire della serie (in particolare a partire da "Milady" KP 33, fondamentale punto di svolta nell'evoluzione del personaggio), Ken vagabonda per il desiderio di conoscere, perché aperto verso gli altri, perché proiettato verso il mondo e verso tutto ciò che può imparare da esso. E quando le persone che incontra lo deludono per la loro meschinità, quando lo spicchio di mondo che attraversa gli fa incontrare soltanto miserie morali alle quali non sempre riesce a far fronte, ecco che Ken trova una ragione in più per ripartire.
E' quanto accade, ad esempio, ne "La lunga pista rossa". Incaricato di ritrovare due bambini mezzosangue (figli di Taza, un apache, e di una donna bianca rapita dagli indiani molti anni prima), Ken arriva a Leadville, un paesino isolato del Colorado, solo per scoprire che i due piccoli sono morti di stenti. Non sono stati gli abitanti del villaggio a causarne la morte (la maestra e il dottore hanno anzi cercato di salvarli, sottraendoli al macabro serraglio di un girovago), ma questo non sembra avere importanza per due misteriosi indiani, i quali, muovendosi nell'ombra, mettono in atto un brutale piano di vendetta nei loro confronti. Ken, impossibilitato ad usare l'arma del dialogo, si trova costretto a partecipare, suo malgrado, ad un crescendo di efferatezze (specchio del più ampio conflitto fra bianchi e indiani) che annulla ben presto ogni possibilità di distinguere il torto dalla ragione. Era una belva Taza, che aveva rapito e costretto al matrimonio una ragazza bianca, ma non erano belve anche i messicani che avevano massacrato, a Santa Rita del Cobre, la sua famiglia? I due indiani vendicatori hanno colpito con estrema crudeltà, ma non si trasformano forse in belve anche gli abitanti di Leadville quando, per non correre rischi, preferiscono uccidere a sangue freddo? "Questa storia è finita come doveva, con dei vincitori e dei vinti", dice Ken, "il mio guaio è che non appartengo né agli uni né agli altri". Non resta, dunque, che spronare il cavallo e allontanarsi ancora una volta verso l'orizzonte.
In "Santa Fe' Express" ritroviamo Ken nei panni di scout dell'esercito, incarico che manterrà per alcuni episodi (sino alla battaglia del Little Big Horn raccontata ne "La leggenda del generale" KP 32). Il soggetto riprende, come già avvenuto per "Uomini, bestie ed eroi" e "Butch, l'implacabile" KP 16, uno degli archetipi del genere western: la rapina ad un treno che trasporta le paghe di una guarnigione. Anche in questo caso, però, lo spunto è un semplice pretesto per offrire qualcosa in più. Nell'insieme, l'episodio si caratterizza per la sua giocosità: la filosofia di vita di Emiliano, la frase-tormentone con cui il caporale replica ad ogni intervento di O'Bannion, l'atmosfera farsesca del bordello sono tutte occasioni per far ridere o sorridere il lettore. Al tempo stesso, si apprezza però anche l'introduzione di tematiche più adulte rispetto a quelle che offrivano, solitamente, i fumetti popolari dell'epoca. Più o meno diffusamente, in "Santa Fe' Express" si parla anche della violenza che può regnare all'interno le mura domestiche, della separazione fra ricchi e poveri (sia tramite le considerazioni di Emiliano che, in maniera forse ancora più incisiva, nella pagina e mezzo dedicata al dialogo fra la signora Wilson e la sua lavorante) e persino dell'opportunità di prevedere dei corsi di educazione sessuale per i giovani. Tutte dimostrazioni, queste, di quanto Ken Parker resti una serie moderna, innovativa, anche negli episodi apparentemente più modesti.
  
Ken Parker Collection 9 di Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo
Panini Comics 208pp, b/n, Euro 4,50, albo brossurato, mensile
- ristampa cronologica ed integrale delle serie dedicate a Ken Parker, con
rubrica a cura di Giancarlo Berardi e prefazione di Gianni Di Pietro -
|